sabato 31 dicembre 2011

I 20 Cognomi più diffusi a Bonito

Pos.CognomeDiffusione(circa)
1GRIECO24
2LOSANNO24
3COVIELLO20
4BEATRICE19
5DI PIETR018
6COTUGNO18
7BELMONTE14
8MEROLA11
9D'AMBROSIO10
10RUGGIERO10
11D'ALESSIO8
12DALESSIO8
13PEPE7
14MARIANO7
15DE CHIARA7
16ROSSETTI7
17MILETTI6
18ANNESE6
19FERRARO5
20LO CONTE5

venerdì 16 settembre 2011

Taurasi D.O.C.G.



Il Taurasi è un vino DOCG la cui produzione è consentita nella provincia di Avellino. Prende il nome dalla cittadina omonima.
Il vino deve essere sottoposto ad un periodo di invecchiamento obbligatorio di almeno tre anni di cui almeno uno in botti di legno.
Il periodo di invecchiamento decorre dal primo dicembre dell'annata di produzione delle uve.
A scopo migliorativo è consentita l'aggiunta di vino Taurasi più giovane ad identico vino più vecchio, o viceversa, nella misura massima del 15% nel rispetto delle disposizioni CEE in materia. In tal caso in etichetta dovrà figurare il millesimo (annata) del vino che concorre in misura preponderante.
La resa massima delle uve in vino non deve essere superiore al 70% al primo travaso e non dovrà superare il sessantacinque per cento dopo il periodo di invecchiamento obbligatorio.
Il Taurasi è un vino che trova le sue origini nell'età preromanica: il vitigno principale da cui si produce questo vino, l'Aglianico, era un tempo detto "hellenico" a sottolineare l'origine greca. L'etimologia del nome "Taurasi" è da ricercare in Taurasia, un piccolo borgo vinicolo che i romani fecero loro dopo aver sconfitto gli irpini, nell'80 d.C. La storia del vino "Taurasi" è descritta nel capitolo " vini e vigneti" di Giovanni Borea-Volume VIII della Storia Illustrata di Avellino e dell'Irpinia-Sellino e Barra Editore 1996.

sabato 27 agosto 2011

Video RAI (Zi Vincenzo Camuso)

 

 Video Girato da RaiDue  nel 1997 per la Trasmissione "La Cronaca In Diretta"



sabato 20 agosto 2011

Menesta 'Mmaretata



Menesta ‘mmaretata

La storia ci dice che questo squisito connubio tra carne bollita e verdure trova i suoi natali nella “Olla Podrida”, piatto spagnolo preparato con gli stessi ingredienti ed importato durante la loro dominazione. La Menesta ‘mmaretata dell’Irpinia è una rivisitazione di quella Napoletana e presenta l’aggiunta di un semplice ma fondamentale elemento, la pizza di granone. Come è risaputo, questa ricca Minestra Natalizia si chiama ‘mmaretata (maritata) perché cotta in un calorico brodo di carne fatto con i tipici ingredienti di questo periodo che è quello della macellazione del maiale.



Ingredienti

Per il brodo

 1 osso di prosciutto
 Guanciale e orecchio di maiale freschi
 Cotiche di maiale
 Piede e muso di maiale


Per la Minestra

Scarola
Borragine
Verza
 Cicoria




Procedimento


Si scaldano le verdure e si tengono da parte. Si prepara un brodo con tutte le parti del maiale e lo si lascia bollire per circa due ore. A questo punto si tolgono dal brodo i pezzi di carne e si schiuma il grasso dalla superficie del brodo. In questo brodo si fanno insaporire le verdure scaldate per circa mezz’ora. La carne, tagliata a pezzettini e privata di eventuali ossa, viene mescolata alla minestra. Il piatto, però, si perfeziona con l’aggiunta di una “povera” focaccia, la pizza di granone. 

venerdì 5 agosto 2011

Poesia di (Luigino Pagliuso)

Aiére, òie... e craie


Allongato 'ngoppa a 'na montagna
abbrazzato da acqua e campagna,
pare ca 'na mano là l'appoiato
mill'anne fa, e mo' l'ha lassato.
Chi lo creavo forse era normanno
ca qua scinnivo, no' 'nze sa quanno,
e pe' se defende da quacche "mammone"
'mbalavo le pprete de lo terreone.
Passa lo tiempo e lo paese cresce
puro la ggente, ca da qua nonn' esce,
passa lo tiempo, currono l'anne
a Fontana nova se ne lavano panne.
Nnant' a le pporte, 'ngoppa a le segge
chi canta, chi sona, chi fatia e chi legge,
e quanno se prea a nostro Signore
scaoze, afflitte e 'mmano lo core.
'Mmiezz'a la via se pazzea e se corre
lo strummolo gira sott'a la torre,
se joca a lire, s'aoza poreva da terra
'no striscio pe' cielo e finisce la vuerra.
Passa lo tiempo e lo paese cresce
puro la ggente, ca da qua nonn' esce,
passa lo tiempo, currono l'anne
a Fontana nova se ne lavano panne.
E quanta storie a lo moraglione,
casa de viecchio e scola a vaglione,
'nganda l'acqua 'na vecchia ianara
tronere, lampe e chien' a ghiomara.
De tutto se parla 'ngopp' a la chiazza,
cunte, cofecchie e scorce de migliazza,
la fera s' abbìa a matutino sonato
se spanne, se spenne e se face mercato.
Passa lo tiempo e lo paese cresce
puro la ggente, ca da qua nonn' esce,
passa lo tiempo, currono l'anne
a Fontana nova se ne lavano panne.
Dint' a le case 'na radio stutata,
no' canta, no' parla, l'anno commigliata,
lo ffuoco 'nfoca, sckoppa lo ceppone
arrivono le bittune de la televesione.
Ce face vedè paise lontane
solde, fatìa, 'mboste e petane,
me ne vavo, ma', me n'aggia ì
e no' 'saccio si torno a vinì.
Passo lo tiempo, lo paese ha crisciuto
la ggente, però, da qua se n'ha 'gghiuto
passa lo tiempo, currono l'anne
le spine hanno chiuso la via... pe lavà le panne.

 
(Luigi Pagliuso)

mercoledì 3 agosto 2011

Bar Ercole Bruno


 In questa foto si vede il famoso bar di Ercolino della seconda metà
degli anni 50


mercoledì 6 luglio 2011

San Crescenzo Martire



A Bonito (AV), incastonata nella parete laterale destra della Chiesa Madre, un’urna maestosa in perfetto stile rococò, tutta indorata, custodisce il fragile e piccolo corpo di un fanciullo martire, chiamato Crescenzo.
Di lui sappiamo con certezza solo queste brevi notizie che si desumono dall’iscrizione trovata sulla sua tomba nel cimitero di S. Ciriaca in Roma:
CRESCENTIUS QUI VIXIT AN XI. MATER CUM METU POSUIT
(Crescenzio (o Crescenzo) che visse 11 anni. La madre con trepidazione pose)


Il santo fu all’inizio chiamato Crescenzio; poi, dalla seconda metà dell’Ottocento, la grafia mutò in Crescenzo, mentre è ancora chiamato “Crescenzio” nel linguaggio popolare.
Nel mese di luglio dell’anno 1800 il corpo del santo fu portato a Bonito dal domenicano P. Luigi Vincenzo Cassitto, illustre teologo e predicatore, il quale, con apposito atto notarile, lo donò all’Arciconfraternita della Buona Morte. Da allora i fedeli bonitesi lo festeggiano la prima domenica di agosto.

A Roma, verso la fine del terzo secolo, in una famiglia in cui il Vangelo era vita vissuta ogni giorno, anche in mezzo alle persecuzioni più feroci come quella di Diocleziano, nacque questo fanciullo dal nome augurale, auspicio di crescita non solo fisica, ma soprattutto spirituale e morale.
Il linguaggio scarno dell’iscrizione c’induce a pensare che essa sia tra quelle più antiche, e potrebbe risalire alla fine del terzo o al principio del quarto secolo, quando il messaggio delle lapidi era estremamente sobrio e si limitava a citare il nome del martire e la persona che aveva curato la sepoltura. 


Questa avvenne nell’agro Verano, nel cimitero di S. Ciriaca, la nobile matrona romana che lì seppellì anche il corpo di S. Lorenzo Martire. Dal modo della sepoltura particolarmente curata, con iscrizione e simboli del martirio si dedurrebbe che la sua famiglia fosse distinta ed agiata. Le tombe dei poveri spesso rimanevano anonime, senza nessun segno di distinzione.
Il fatto che solo lui e non la madre fosse martirizzato farebbe supporre che si trattasse di una colpa sua personale. Quale? Ogni ipotesi è buona. Certamente in quei tempi anche i fanciulli e le fanciulle erano profondamente istruiti nella fede e si nutrivano quotidianamente dell’Eucaristia. Basti pensare a S. Tarcisio, S. Pancrazio, S. Agnese a Roma, S. Agata e S. Lucia in Sicilia, S. Eulalia in Spagna. 


Non è da escludere l’ipotesi che S. Crescenzo, come S. Tarcisio, abbia preferito farsi uccidere, anziché profanare o far profanare l’Eucaristia, oppure si sia rifiutato di sacrificare agli idoli. Forse sarà bastato il semplice fatto di essere un cristiano per ricevere la condanna, in quanto i Cristiani erano considerati “irreligiosi in Caesares” (= empi verso gli imperatori).


L’iscrizione tombale ci presenta la figura forte e tenera della madre di S. Crescenzo che, sull’esempio della Madonna che, pur nello schianto del cuore materno, stava ritta in piedi presso la croce del suo figlio, ha soltanto trepidato dinanzi al piccolo testimone di Cristo, che aveva confermato col sangue il patto del battesimo. Ha raccolto quel sangue, lo ha deposto in un’ampolla e, più che alla terra, ha affidato a Dio, eredità, corona e premio dei martiri, il corpo del suo bambino. 


E nel cimitero di S. Ciriaca, questo invitto soldato di Cristo ha dormito per cinque secoli, fino a quando P. Luigi Vincenzo Cassitto lo ha scoperto e, dopo l’esumazione, composizione e ricognizione del corpo da parte del chirurgo pontificio Antonio Magnani, lo ha portato al suo paese natale di Bonito.


Autore: Carlo Graziano

domenica 26 giugno 2011

Antichi Matrimoni In Irpinia



Il giovedì prima del matrimonio veniva portato lo lietto, cioè veniva portato il corredo nella casa nuziale; anche questa era un'occasione per festeggiare, ma la sposa non vi poteva partecipare, perché era assolutamente proibito andare a casa del fidanzato prima del matrimonio. Questa tradizione, a Morroni (piccolo centro dell’Irpinia), è stata mantenuta fino a circa venti anni fa. Il giorno del matrimonio gli invitati si riunivano a casa dello sposo, di qui partivano tutti insieme per andare a prendere la sposa e portarla in chiesa. Qui le acquasantiere venivano sorvegliate da persone di fiducia, perché, durante la celebrazione del matrimonio, si potevano fare delle fatture. Quando il prete pronunciava le parole ora pro nobis la persona male intenzionata si metteva vicino all'acquasantiera e facendo dei nodi ad uno spago diceva: Diavolo attacca a quisto. Dopo la Messa, gli sposi facevano un giro per il paese per ricevere gli auguri degli amici e donare confetti ai bambini. Se la sposa aveva una cattiva reputazione, andando in chiesa correva il rischio di trovare la strada cosparsa di fagioli. Lo sposo indossava un vestito nero con panciotto, la camicia bianca, la c cravatta nera. La sposa era vestita di bianco o di rosa, in mano recava un mazzo di fiori di campo ed una borsetta in cui portava degli oggetti simbolici: tre pezzi di cuoio juvo, cioè il cuoio del giogo, sale doppio, una figura del Santo di cui era devota. Gli sposi tornavano a casa a piedi, la suocera li accoglieva, lanciando i confetti e petali di rose, poi, simbolicamente, rompeva il piatto che li conteneva. Il pranzo era molto elaborato; consisteva in pasta fatta in casa, spezzatino di coniglio, vari tipi di carne di animali da cortile ed infine la pizza ionna. Il mattino seguente al matrimonio, la suocera si recava in camera degli sposi per avere la prova della verginità della nuora. Da questo dipendeva la riuscita del matrimonio e la buona reputazione della sposa agl'occhi di parenti ed amici. I fatti persoli della sposa, difatti, venivano messi al bando dalla suocera soddisfatta o meno, ed in quest’ultimo caso poteva addirittura rimandare la sposa da suo padre. Per una settimana la sposa non usciva di casa, la domenica seguente si recava in chiesa col marito e per l’occasione indossava un abito nero detto “spolverino”. In questa occasione si diceva che la sposa “asceva a messa”. Dopo quindici giorni poteva andare a trovare i suoi genitori e raccontare della nuova vita. (Franca Molinaro)

sabato 25 giugno 2011

Sapori Bonitesi (mogliatielle)

Mugliatielli" involtini di interiora e frattaglie, di agnello,avvolti con l'intestino, molto diffusi in tutta l'Irpinia, sono uno degli esempi di piatti composti da cibi poveri ma nutrienti, dando così la forza sufficiente ai contadini di potere lavorare. Ancora, oggi, gli anziani utilizzano come uno degli ingredienti principali della loro cucina le parti meno nobili degli animali. Prima si preparavano in casa oro si comprano in macelleria perchè per preparerli ci vuole molto tempo




domenica 5 giugno 2011

La pizza ionna



La pizza ionna con le frittole è un’antica ricetta tipica del territorio Irpino: consiste in una pizza da forno a base di farina di granoturco, insaporita con formaggio pecorino e “frittole” cioè cicoli, i pezzetti di grasso che si ottengono dalla lavorazione della sugna. Con ogni probabilità originariamente la migliazza veniva preparata con la farina di miglio, da cui deriva il suo nome e che oggi, in questa come in molte altre ricette, è stata sostituita da quella di granoturco. La migliazza è un piatto decisamente invernale, sia per gli ingredienti usati, residui della lavorazione del maiale, sia per il suo elevato apporto calorico; tradizionalmente veniva preparata in abbinamento con la minestra maritata. In realtà la sua preparazione è molto semplice, poiché basta far bollire le frittole in acqua, sale e peperoncino e aggiungere, a bollitura avvenuta, la farina di mais e il pecorino grattugiato. L’impasto, una volta cotto e amalgamato, viene fatto asciugare e cotto al forno in una teglia ben unta di sugna o, in alternativa sulla brace dove però deve essere chiuso da un coperchio su cui si poggiano dei pezzi di brace.

Blasoni




Tutti i paesi della provincia di Avellino, che ammontano a centodiciannove, nel passato erano catalogati con uno o più motti coloriti, che gli studiosi hanno denominato blasoni popolari . Sono nomignoli scherzosi, che tendono a deridere gli abitanti dei paesi. Quindi si tratta di una caricatura, che ha il solo scopo di sbeffeggiare e mettere in ridicolo. Sono soprannomi appioppati dai residenti di un paese ai residenti dei paesi limitrofi, tradizionalmente avversi. Buona parte dei motteggi nacque certamente dallo spirito di campanilismo che animò nel passato i rapporti tra i nostri piccoli agglomerati. Il maggior numero di essi è stato riferito dai singoli informatori, originari o degli stessi paesi (pochi) oppure dei paesi viciniori (i più). La memoria di questi attributi popolari è quasi scomparsa; sopravvive solo nel ricordo di pochi settantenni o ottantenni.

Si riportano qui di seguito i blasoni popolari dei paesi della nostra Irpinia al completo. Per ora ci limitiamo a riferirne uno solo per ogni centro abitato, quello più comune e più caratterizzante. Una apposita pubblicazione, che vedrà la luce a breve, sarà più esaustiva (ogni comunità vantava più di un blasone!), arricchita anche da filastrocche canzonatorie, chiamate dagli antropologi rappresaglie cantate . Neanticipiamo un piccolo campione, riguardante il nostro capoluogo: Avellino: Spogliacristi (scrocconi); Culacchiùti (dal culo grosso), Cucchialùti (col fondoschiena a forma di cucchiaio), Carrozzieri (cocchieri), Mbrellìni (vanitosi e fatui), Paccottàri o Cartocciàri (defecavano in casa nei coni di carta, ‘o cartoccio, ‘o cuoppo, che poi gettavano nelle siepi, ma per lo più nel fiume). Ecco alcuni detti:

Avellinési, fàvezi e curtesi !

Avellinu, pisciaturu r'Italia (per le frequenti piogge).

1. Aiello del Sabato (aiellesi) Mangiacacciuòtteli (che mangiavano i cuccioli di cani)

2. Altavilla (altavillesi) Cacapignàte (che defecavano nelle pignatte)

3. Andretta (andrettesi) Mbezzecùsi (cavillosi, attaccabrighe)

4. Aquilonia, (aquilonesi) Arrerupasànti (dirupasanti)

5. Ariano Irpino (arianesi) Coppulappìsi: (dai berretti a sghimbescio)

6. Atripalda (atripaldesi) Cachiéri (per i bisogni andavano sulle rive del Sabato)

7. Avella (avellani) Cipollàre (produttori e di cipolle)

8. Avellino (avellinesi) Spogliacristi (scrocconi)

9. Bagnoli Irpino (bagnolesi) Cammenanti (commercianti girovaghi)

10. Baiano (baianesi) Puntellàre (fornitori di pali per puntellare i vigneti)

11. Bisaccia (bisaccesi) Vrecchipànni (dalle orecchie a sventola)

 
12. Bonito (bonitesi) Migliazzàri (si cibavano di migliazza , pizza di farina di miglio , imbottita di ciccioli di maiale)


13. Cairano (cairanesi) Chiantacòppule (coltivatori di peperoni)

14. Calabritto (calabrittani) Scazzaprùcchi (schiaccia pidocchi)

15. Calitri (calitrani) Menaprète (perché buttavano pietre nell'unico pozzo che sorgeva in territorio di Cairano)

16. Candida (candidesi) Chiuovarùli (fabbricanti di chiodi, fabbri)

17. Caposele (caposelesi) Mangiafichi (produttori e ingordi di fichi)

18. Capriglia Irpina (caprigliesi) Scorciacucci (scuoia conigli)

19. Carife (carifani) Mbastacréta (modellavano caraffe di creta)

20. Casalbore (casalboresi) Zellùsi (tignosi; pretestuosi )

21. Cassano Irpino (cassanesi) Mangialupìni (ingordi di lupini)

22. Castelbaronia (castellesi) Segacòrne (con i corni di buoi e montoni, costruivano oggetti di osso, come i pettini)

23. Castelfranci (castellesi) Castigu r' Diu , quasi uno dei flagelli di Dio

24. Castelvetere sul C. (castelveteresi) Scanzazànghi (per le vie fangose, i castelveteresi si rimboccavano i calzoni per non infangarsi)

25. Cervinara (cervinaresi) Graunàri (carbonai)

26. Cesinali (cesinalesi) Jàlli ‘e massaria (altezzosi, superbi)

27. Cianche (chianchesi) Chiangarùli (storpiando il nome del paese Chianche, frequentatori di chianghe , beccherie;

28. Chiusano S. Domenico (chiusanesi) Asciuoli (fischiettano come assiuoli)

29. Contrada (contradesi) Li cani

30. Conza della Campania (conzani) Sponzaruospi (mangia rane)

31. Domicella (domicellesi) I galoppini (gente adusa ai viaggi; faccendieri)

32. Flumeri ( flumeresi) Affumecàte (che vivono nella nebbia)

33. Fontanarosa (fontanarosani) Cacallèrta (precipitosi; altri: pigri al punto da infastidirsi anche al solo calarsi le brache)

34. Forino (forinesi) Spurtellàri (costruttori si sporte)

35. Frigento (frigentini) Nasipizzùti (dal naso affilato dal freddo che imperversa nel paese che è situato ad alta quota)

36. Gesualdo (gesualdini) Craparieddi (caprai)

37. Greci (grecesi) Santascurciùgni (scorticasanti, spellano il prossimo)

38. Grottaminarda (grottesi) Votacòppela (voltagabbana, perché cambiarono il loro patrono: da San Giacomo a San Tommaso d'Aquino)

39. Grottolella (grottolesi) Peponàri (venditori di peperoni tritati)

40. Guardia dei Lombardi (guardiesi) Ciangulùni (bracaloni, sciattoni; semplicioni)

41. Lacedonia (lacedoniesi) Viccifàtui (scioccamente boriosi, simili a tacchini)

42. Lapio (lapiani) Mangiàgli (gran mangioni di agli; poveri)

43. Lauro (lauretani) Puzinielli (impiegati in camicia e polsini; Lauro era il centro del Principato, dotato di uffici pubblici)

44. Lioni (lionesi) Annigliàti (avvolti dalla nebbia)

45. Luogosano (luogosanesi) Mangiamarruchiélli (mangia lumache)

46. Manocalzati (manocalzatesi) Zucculìlli o socchélle (fabbricanti di zoccoli)

47. Marzano di Nola (marzanesi) V ozz'appese (gozzuti, perché bevevano acqua di pozzo, che, così si credeva, era ricca d'olio).

48. Melito Irpino (melitesi) Mangiaruospi (per l'abbondanza di rane nel corso del fiume Ufita che attraversa il paese)

49. Mercogliano (mercoglianesi) Pecoràri (che pascevano le pecora sopra Castello)

50. Mirabella Eclano (mirabellesi) Piattàri (rigattieri)

51. Montaguto (montagutesi) Mangiacoteca (mangia cotenna di maiale)

52. Montecalvo Irpino (montecalvesi) Mbriacùni (beoni)
53. Montefalcione (montefalcionesi) Mangiàgli (mangiatori di agli)

54. Monteforte Irpino (montefortesi) Carrabbàri (fabbricatori di barili)

55. Montefredane (montefredanesi) Facciatìnti (scuri di pelle)

56. Montefusco (montefuscani) Sciugulacchiàni (perché per scendere giù a Santa Paolina, i montefuscani scivolavano col culo per terra; oppure perché una volta parte del paese franò a valle)

57. Montella (montellesi) Faccistuorti (voltafaccia; che guardano biechi perché non vogliono incrociare lo sguardo di altri).

58. Montemarano (montemaranesi) Culirùssi (le donne indossavano gonne rosse)

59. Montemiletto (montemilettesi) Votacòppola (che mutano facilmente parere)

60. Monteverde (monteverdesi) Faccisciàline, facceggiàlle (dall'incarnato pallido)

61. Montoro Inferiore (montoresi) Cipullàri (produttori di cipolle)

62. Montoro Superiore (montoresi) Canijànchi (cani bianchi)

63. Morra De Sanctis (morresi) Mangiatrippe (ingordi di trippa)

64. Moschiano (moschianesi) Faccistuorte (diffidenti, perché situati in una zona isolata; voltafaccia, inaffidabili)

65. Mugnano del Cardinale (mugnanesi) Subressatàre (confezionano salumi )

66. Nusco (nuscani) Li pacci (matti; estrosi)

67. Ospedaletto d'Alpinolo (ospedalettesi) Cupetàri (fabbricanti di torroni)
68. Pago del Vallo di Lauro (paghesi) Pavajuoli, scauzùni (che andavano per lo più scalzi)

69. Parolise (parolisani) Scorciapatàne (sbuccia patate)

70. Paternopoli (paternesi) Vocche r' nfiernu (bocche maligne dell'inferno)

71. Petruro (petruresi) Perturìsi (storpiando il nome del paese, come a dire, per scherzo, abitanti di pertugi, dimoranti in tuguri)

72. Pietradefusi (pietradefusani) Capicuotti (dalla testa bruciata)

73. Pietrastornina (pietrastornesi) ‘E camerère (le donne si offrivano a Napoli come balie)

74. Prata P. U. (pratesi) I cèci (sempliciotti)

75. Pratola Serra (pratolesi) Ciucciàri (commercianti di bestiame)

76. Quadrelle (quadrellesi) Nugliàre (confezionavano noglie , salumi )

77. Quindici (quindiciani) Curtellàri (facili a impugnare il coltello)

78. Roccabascerana (rocchesi) Giacchettàri, (perché confezionavano giacche)

79. Rocca San Felice (rocchesi) Mufetàri (dal maleodorante odore della Mefite)

80. Rotondi (rotondesi) Li tunni (i tonti)

81. Salza Irpina (salzesi) Solachianielli (riparatori di scarpe)

82. San Mango sul Calore (sanmanghesi) Mangiafìcu (produttori e ingordi di fichi)

83. S. Martino V. C. (sammartinesi) Martinàri (gente prepotente, intrigante)

84. San Michele di Serino (sammichelesi) Vurgiùti (gozzuti: la diffusione del gozzo era dovuta all'alimentazione basata sul consumo di cavoli)

85. San Nicola Baronia (sannicolesi) Peparulàri ( perché negli orti coltivavano peperoni)

86. San Potito Ultra (Sampotitesi) Sfuttitùri (beffeggiatori)
87. San Sossio Baronia (sossiani) Capegruosse (teste grosse)

88. S. Lucia di Serino (liciani) Menestràri (per l'abbondante produzione di verdure)

89. Sant'Andrea di Conza (santandreani) Jettacàntari (svuota-orinali)

90. S. Angelo All'Esca (santangiolesi) Orgiùti (gozzuti): il diffuso difetto era attribuito all'ingestione di un'acqua locale che conteneva una sostanza nociva.

91. S. Angelo a Scala (santangiolesi) Sirùnti (unti d'olio, per la produzione di olive)

92. Sant'Angelo dei L. (santangiolesi) Strazzaguàndi (dai guanti laceri, spocchiosi e spilorci)

93. Santa Paolina (santapaolinari) Ciuccàri (mercanti di asini)

94. S. Stefano del Sole (santostefanesi) Làene , Liàne (senza spina dorsale, molli come le fettuccine fatte in casa)

95. Savignano Irpino (savignanesi) Mangiachecozze (produttori e mangiatori di zucche)

96. Scampitella (scampitellesi) Scasciacallàre (irosi e rompi tutto)

97. Senerchia (senerchiesi) Pieripelùsi (polemici, petulanti)

98. Serino (serinesi) Chiantavruòcculi (seminatori di broccoli)

99. Sirignano (sirignanesi) Mangiarolle (mangia erbe, vegetariani)

100. Solofra (solofrani) Stritt'e mànu (spilorci)

101. Sorbo Serpico (sorbesi) Mulunari (mugnai)

102. Sperone (speronesi) Cucciulùni (teste di coccio, testardi e stupidotti)

103. Sturno (sturnesi) Ruospe re pandàne (rospi di pantano)

104. Summonte (summontesi) Culapierti (perché chini a raccogliere le castagne)

105. Taurano (tauranesi) Figli e' muonici (per la presenza di un convento di di monaci culturalmente molto attivi)

106. Taurasi (taurasini) Cugliùti (erniosi)

107. Teora (teoremi) Scardalàni (cardatori)

108. Torella dei Lombardi (torellesi) Cucuzzàri (coltivatori di zucche)

109. Torre Le Nocelle (torresi) Cansirri (zoticoni). Il canzìrro in dialetto campano è il bardotto, generato dall'accoppiamento di un cavallo con un'asina. Il termine starebbe per duri come muli .

110. Torrioni (torrionesi) Giappunìsi (forse perché attaccabrighe, maneschi; altri: gente strana, bizzarra, fuori dal comune)

111. Trevico (trevicani) Mangiapatàne (consumatori di patate)

112. Tufo (tufesi) Nzaccanigliàri (insacca nebbia)

113. Vallata (vallatesi) Lenguestorte (per la parlata unica praticata nel posto)

114. Vallesaccarda (vallesaccardesi) Mangiapatàne (vi si producev a gran quantità di patate)

115. Venticano (venticanesi) Crapàri (caprai)

116. Villamaina (villamainesi) Trippeggiàlle, Trippesciàlene (perché mangiatori di una qualità di pere, dalla forma di trippa, la sacca dello stomaco, e maturano e diventano gialle nell'invernata).

117. Villanova del Battista (villanovesi) Purcarìa (storpiando l'antico nome di Polcherino)

118. Volturara Irpina (volturanesi) Mbriacùni (avvinazzati)

119. Zungoli (zungolesi) Pezzienti (poveri)

sabato 4 giugno 2011

Ponte Rotto



Ai confini del territorio di Bonito si possono scorgere, sul letto del fiume Calore, i ruderi di un antichissimo viadotto romano detto Ponte Rotto o Ponte Appiano.

Costruito per consentire il passaggio della via Appia, che da Benevento si inoltrava verso la valle dell'Ufita, subì nel corso dei secoli numerosi rifacimenti ed interventi di manutenzione, a conferma della notevole importanza rivestita nei collegamenti tra il Sannio, l'Irpinia e la Puglia.

La via Appia, mentre da Roma a Capua fu creata ex novo nel 314-312 a.C., nel tratto da Capua a Venosa, realizzato dopo le guerre sannitiche, attorno al 190 a.C., seguiva soprattutto percorsi naturali. Da Caudium giungeva a Benevento, importantissimo nodo viario, e con il tratto successivo di 15 miglia raggiungeva Aeclanum.

Questo tratto fu rinnovato da Adriano nel 123 d.C., come attestano anche i sei miliari ritrovati lungo il percorso, e attraversava il Calore proprio con il Ponte Rotto.

Forse realizzato inizialmente in legno, fu ricostruito in muratura probabilmente in età traianea.

Tale datazione è avvalorata dalla tecnica costruttiva con paramenti in laterizio e ghiere di bipedali, simile a quella di alcuni ponti della via Traiana, quali quello delle Chianche presso Buonalbergo, quello di Santo Spirito a Montecalvo e i due sul Carapelle e sul Cervaro in Puglia.

La struttura, a schiena d'asino, era lunga circa 142 metri e comprendeva otto archi sorretti da sette piloni, di cui tre in acqua e quattro sul terreno.

La carreggiata aveva una larghezza di circa quattro metri e il complesso era rivestito in opus reticulatum.

Con la fine dell'Impero, il ponte e la via Appia continuarono a rivestire un ruolo importante per la viabilità e furono utilizzati, anche dopo l'occupazione longobarda, dai Bizantini e dai Normanni.

Al periodo altomedievale si fanno risalire i resti di due pilastri, aggiunti in sott'arco durante un intervento di restauro del ponte. I due piloni, che occupano il centro della quarta e della settima arcata, inglobano materiale lapideo proveniente dallo spoglio di antichi monumenti, tra cui un tronco di colonna liscia, blocchi con resti di cornici, il frammento di un capitello con foglie d'acanto e di un fascio littorio.

Subito a valle fu realizzato, certamente per sostituire il ponte antico definitivamente abbandonato, un piccolo ponte medievale, lungo circa 42 metri e con due soli piloni, di cui sono visibili ancora oggi i ruderi.

Il monumento è situato al confine del territorio di Apice, provincia di Benevento.

Vi si arriva dalla strada nazionale per Benevento (SS90), attraverso una strada interpoderale.

venerdì 27 maggio 2011

Madonna Della Valle

La chiesa della Madonna Della Valle ed il paesaggio circostante così come la dipinta Antonio Curcio.


venerdì 20 maggio 2011

Il nostro vino (DOCG)

La storia del vino Taurasi



L’Aglianico è un vitigno autoctono diffuso in tutto il Meridione Italiano dove si esprime con grande tipicità. Al vino Aglianico di Taurasi, è stata attribuita, per primo, la denominazione di origine controllata e garantita (Docg). Lo hanno da poco seguito altri due grandi vini Irpini, il Greco di Tufo e il Fiano di Avellino. È un vitigno antichissimo, probabilmente originario della Grecia e introdotto in Italia intorno al VII-VI secolo a.C.. Non ci sono certezze sulle origini del nome, che potrebbero risalire all’antica città di Elea (Eleanico), sulla costa tirrenica della Lucania, o essere più semplicemente una storpiatura della parola Ellenico. Testimonianze storico-letterarie sulla presenza di questo vitigno si trovano in Orazio, che cantò le qualità della sua terra (era nativo di Venosa dove l’Aglianico trova un’altra grande espressione con l’Aglianico del Vulture) e del suo ottimo vino. Il nome originario (Elleanico o Ellenico) divenne Aglianico durante la dominazione aragonese nel corso del XV secolo, a causa della doppia l pronunciata gli nell’uso fonetico spagnolo.

Il nome della città trae origine dalla storica e antica Taurasia, distrutta dai Romani nel 268 AC. In questa cittadina e nei Campi Taurasini (“Ager Taurasinus”) negli anni 181-180 a.C. I Romani trasferirono una popolazione di Liguri-Apuani, di stirpe celtica e questi, trovando delle zone molto fertili, riprendono la coltivazione dei campi e della vite cosiddetta “greca”. Nel 42 a.C. Dopo la battaglia di Filippi in Macedonia, il territorio di Taurasia viene assegnato ai soldati romani veterani che vinificano la “vitis ellenica” da loro portata dalla Macedonia. Tito Livio, nel suo Ab Urbe Condita, accenna ad una “Taurasia dalle vigne opime” fornitrice di ottimo vino per l’Impero,dove si allevava la vite Greca o Ellenica. Invece risale al 1167 d.C. il primo documento conosciuto nel quale viene citata la vite in Taurasi che gli Spagnoli chiamavano vite “Aglianica”; e furono proprio gli spagnoli che, a causa della loro pronuncia, trasformarono lil nome della vite Ellanico o Ellanico in Aglianico. Nel 1898 lo Strafforello scrive: ” Nelle buone annate il vino è assai copioso e molto se ne esporta nelle province limitrofe, … principalmente coi nomi di vino “Tauraso” ed altri. Il migliore si raccoglie nei Comuni di Taurasi …”.

L’Aglianico è vitigno scontroso: matura tardi, è intenso e brusco in principio, difficile da coltivare e difficilissimo da vinificare, con tannini che richiedono tempo per essere ammorbiditi ed acidità che gli assicura il tempo necessario affinchè venga levigato. Inimitabile nei sentori di viola, di amarene, sottobosco e piccoli frutti, la sua vinificazione lo può rendere banale o eccelso.


LE ANNATE DEL TAURASI



L’anno 1928 rappresenta la vendemmia simbolo della rinascita del Taurasi. Tutta l’Europa è sconvolta dalla fillossera che ha distrutto i vigneti dei migliori distretti francesi e del nord Italia; a Taurasi la fillossera non è ancora arrivata, grazie ai terreni campani, sabbiosi e vulcanici, che ne impediscono la prolificazione. In quell’anno dalla “ferrovia del vino” di Taurasi partono interi vagoni di vino Aglianico, per rinsanguare i principali distretti viticoli toscani, piemontesi e di Bordeaux.

La fillossera si farà sentire al Sud Italia solo verso gli anni ’50 e nel 1948 riparte anche a Taurasi la ricostruzione di quegli impianti colpiti dal parassita, che ha risparmiato solo i vigneti su suoli vulcanici-sabbiosi, che pure in Campania sono tanti ed in produzione ancora oggi.

E’ solo nel dopoguerra, nel 1958, che sulla spinta della ricostruzione, riprende una produzione di vino di qualità e l’Aglianico si trova a competere con i nuovi vitigni che vengono impiantati su piede americano.

Ma la Campania crede nel suo vitigno principe, l’Aglianico, grazie all’opera dell’Istituto Tecnico Agrario fondato da Francesco De Sanctis nel 1878.

Rivive nelle sue grandi espressioni a partire proprio dal 1968, anno di riferimento per la straordinaria produzione di Taurasi per la Famiglia Mastroberardino, di Atripalda, come il Romaneè-Conti 1961 per il bordolese o il Brunello 1955 per Biondi-Santi.

Da allora la produzione di Taurasi ha ripreso vigore e le annate straordinarie si sono susseguite sempre più regolarmente:

Il 1970 dà il primo Taurasi DOC, che il Disciplinare prevede come vino di sole uve Aglianico, con piccole concessioni (15%) ai vitigni locali Piedirosso, Mantonico e dal 2001 anche agli onnipresenti Cabernet e Merlot.

Il 1977 regala una estate eccezionale dal punto di vista climatico, per i tanti piccoli produttori che hanno l’opportunità di esibire un Taurasi sontuoso, da ricordare. E dopo il 1984, annata veramente disastrosa per gelate, grandine e autunno piovoso, giunge un’altra grande annata, il 1985, meritevole di essere ricordata. Sono gli anni del dopo-terremoto, ma il vino irpino è premiato dalla qualità, anche grazie alla DOC di altri due grandi vini Campani il Greco di Tufo ed il Fiano di Avellino. Il 1987 ed il 1988 sono ancora annate a cinque stelle, come il 1990 che rappresenta l’annata ideale che ogni viticoltore sogna per coniugare qualità e quantità.

In questi anni si registra un’esplosione del Taurasi, che comincia farsi strada tra i grandi vini internazionali, le Cantine imbottigliatrici passano da 10 a circa 80 ed il 1993, un grande millesimo, il Taurasi arriva al riconoscimento della DOCG, che resta l’unico di tutto il Centro-sud fino al 2003, anno del riconoscimento della DOCG agli altri due grandi vini Irpini, il Fiano ed il Greco. In questi anni riluce un altro grande millesimo, il 1977, che inizia ad offrire al mercato nuovi modelli stilistici ed interpretativi dovuti principalmente all’impiego di barrique o di grandi botti di rovere di Slavonia ed ai moderni sesti di impianto, che trascurano la ormai obsoleta, ma affascinante alberata taurasina.

Con la presentazione di un esaltante 1999 si svolge la prima edizione di “Anteprima Taurasi” che offre un vino dotato di struttura, molto tannico e chiuso, ma adatto a lunghissimo invecchiamento.

Il 2001 è caratterizzato da una drastica riduzione delle rese, a causa di una gelata primaverile, ma il vino ottenuto ha mineralità, buona alcolicità e balsamicità, corpo e pienezza, e troverà il suo equilibrio in bottiglia.

Il 2002 sarà ricordato come uno dei peggiori degli ultimi 50 anni, ed il 2003 darà vini molto eterogenei, difficili da vinificare a causa di una estate straordinariamente calda e secca.

Ma dopo due annate “estreme” arriva il 2004, annata generosa ed equilibrata, che ci darà vini vicini alla tradizione, eleganti, austeri e molto tipici per l’espressione delle varie sottozone.

Il 2005, appena presentato, è stato valutato con 4 stelle, al contrario di tutte le annate a 5 stelle che abbiamo fin qui citato, ma confidiamo in una buona evoluzione in bottiglia, da confermare nei prossimi due-tre anni.

LE ANNATE A 5 STELLE



1928 – 1934 – 1958 – 1968 – 1977 – 1985 – 1987 – 1988 – 1990 – 1993 – 1997 – 1999 – 2001 – 2004.




LE ANNATE A 4 STELLE

1948 – 1955 – 1960 – 1964 – 1966 – 1967- 1994 – 1996 – 2000.

Vino Taurasi Area di produzione
Territori collinari in provincia di Avellino nei comuni: Taurasi, Bonito, Casterlfranci, Castelvetere sul Calore, Fontanarosa, Lapio, Luogosano, Mirabella Eclano, Montefalcione, Montermarano, Montemiletto, Paternopoli, Pietradefusi, Sant’Angelo all’Esca, San Mango sul Calore, Torre le Nocelle e Venticano