venerdì 27 maggio 2011

Madonna Della Valle

La chiesa della Madonna Della Valle ed il paesaggio circostante così come la dipinta Antonio Curcio.


venerdì 20 maggio 2011

Il nostro vino (DOCG)

La storia del vino Taurasi



L’Aglianico è un vitigno autoctono diffuso in tutto il Meridione Italiano dove si esprime con grande tipicità. Al vino Aglianico di Taurasi, è stata attribuita, per primo, la denominazione di origine controllata e garantita (Docg). Lo hanno da poco seguito altri due grandi vini Irpini, il Greco di Tufo e il Fiano di Avellino. È un vitigno antichissimo, probabilmente originario della Grecia e introdotto in Italia intorno al VII-VI secolo a.C.. Non ci sono certezze sulle origini del nome, che potrebbero risalire all’antica città di Elea (Eleanico), sulla costa tirrenica della Lucania, o essere più semplicemente una storpiatura della parola Ellenico. Testimonianze storico-letterarie sulla presenza di questo vitigno si trovano in Orazio, che cantò le qualità della sua terra (era nativo di Venosa dove l’Aglianico trova un’altra grande espressione con l’Aglianico del Vulture) e del suo ottimo vino. Il nome originario (Elleanico o Ellenico) divenne Aglianico durante la dominazione aragonese nel corso del XV secolo, a causa della doppia l pronunciata gli nell’uso fonetico spagnolo.

Il nome della città trae origine dalla storica e antica Taurasia, distrutta dai Romani nel 268 AC. In questa cittadina e nei Campi Taurasini (“Ager Taurasinus”) negli anni 181-180 a.C. I Romani trasferirono una popolazione di Liguri-Apuani, di stirpe celtica e questi, trovando delle zone molto fertili, riprendono la coltivazione dei campi e della vite cosiddetta “greca”. Nel 42 a.C. Dopo la battaglia di Filippi in Macedonia, il territorio di Taurasia viene assegnato ai soldati romani veterani che vinificano la “vitis ellenica” da loro portata dalla Macedonia. Tito Livio, nel suo Ab Urbe Condita, accenna ad una “Taurasia dalle vigne opime” fornitrice di ottimo vino per l’Impero,dove si allevava la vite Greca o Ellenica. Invece risale al 1167 d.C. il primo documento conosciuto nel quale viene citata la vite in Taurasi che gli Spagnoli chiamavano vite “Aglianica”; e furono proprio gli spagnoli che, a causa della loro pronuncia, trasformarono lil nome della vite Ellanico o Ellanico in Aglianico. Nel 1898 lo Strafforello scrive: ” Nelle buone annate il vino è assai copioso e molto se ne esporta nelle province limitrofe, … principalmente coi nomi di vino “Tauraso” ed altri. Il migliore si raccoglie nei Comuni di Taurasi …”.

L’Aglianico è vitigno scontroso: matura tardi, è intenso e brusco in principio, difficile da coltivare e difficilissimo da vinificare, con tannini che richiedono tempo per essere ammorbiditi ed acidità che gli assicura il tempo necessario affinchè venga levigato. Inimitabile nei sentori di viola, di amarene, sottobosco e piccoli frutti, la sua vinificazione lo può rendere banale o eccelso.


LE ANNATE DEL TAURASI



L’anno 1928 rappresenta la vendemmia simbolo della rinascita del Taurasi. Tutta l’Europa è sconvolta dalla fillossera che ha distrutto i vigneti dei migliori distretti francesi e del nord Italia; a Taurasi la fillossera non è ancora arrivata, grazie ai terreni campani, sabbiosi e vulcanici, che ne impediscono la prolificazione. In quell’anno dalla “ferrovia del vino” di Taurasi partono interi vagoni di vino Aglianico, per rinsanguare i principali distretti viticoli toscani, piemontesi e di Bordeaux.

La fillossera si farà sentire al Sud Italia solo verso gli anni ’50 e nel 1948 riparte anche a Taurasi la ricostruzione di quegli impianti colpiti dal parassita, che ha risparmiato solo i vigneti su suoli vulcanici-sabbiosi, che pure in Campania sono tanti ed in produzione ancora oggi.

E’ solo nel dopoguerra, nel 1958, che sulla spinta della ricostruzione, riprende una produzione di vino di qualità e l’Aglianico si trova a competere con i nuovi vitigni che vengono impiantati su piede americano.

Ma la Campania crede nel suo vitigno principe, l’Aglianico, grazie all’opera dell’Istituto Tecnico Agrario fondato da Francesco De Sanctis nel 1878.

Rivive nelle sue grandi espressioni a partire proprio dal 1968, anno di riferimento per la straordinaria produzione di Taurasi per la Famiglia Mastroberardino, di Atripalda, come il Romaneè-Conti 1961 per il bordolese o il Brunello 1955 per Biondi-Santi.

Da allora la produzione di Taurasi ha ripreso vigore e le annate straordinarie si sono susseguite sempre più regolarmente:

Il 1970 dà il primo Taurasi DOC, che il Disciplinare prevede come vino di sole uve Aglianico, con piccole concessioni (15%) ai vitigni locali Piedirosso, Mantonico e dal 2001 anche agli onnipresenti Cabernet e Merlot.

Il 1977 regala una estate eccezionale dal punto di vista climatico, per i tanti piccoli produttori che hanno l’opportunità di esibire un Taurasi sontuoso, da ricordare. E dopo il 1984, annata veramente disastrosa per gelate, grandine e autunno piovoso, giunge un’altra grande annata, il 1985, meritevole di essere ricordata. Sono gli anni del dopo-terremoto, ma il vino irpino è premiato dalla qualità, anche grazie alla DOC di altri due grandi vini Campani il Greco di Tufo ed il Fiano di Avellino. Il 1987 ed il 1988 sono ancora annate a cinque stelle, come il 1990 che rappresenta l’annata ideale che ogni viticoltore sogna per coniugare qualità e quantità.

In questi anni si registra un’esplosione del Taurasi, che comincia farsi strada tra i grandi vini internazionali, le Cantine imbottigliatrici passano da 10 a circa 80 ed il 1993, un grande millesimo, il Taurasi arriva al riconoscimento della DOCG, che resta l’unico di tutto il Centro-sud fino al 2003, anno del riconoscimento della DOCG agli altri due grandi vini Irpini, il Fiano ed il Greco. In questi anni riluce un altro grande millesimo, il 1977, che inizia ad offrire al mercato nuovi modelli stilistici ed interpretativi dovuti principalmente all’impiego di barrique o di grandi botti di rovere di Slavonia ed ai moderni sesti di impianto, che trascurano la ormai obsoleta, ma affascinante alberata taurasina.

Con la presentazione di un esaltante 1999 si svolge la prima edizione di “Anteprima Taurasi” che offre un vino dotato di struttura, molto tannico e chiuso, ma adatto a lunghissimo invecchiamento.

Il 2001 è caratterizzato da una drastica riduzione delle rese, a causa di una gelata primaverile, ma il vino ottenuto ha mineralità, buona alcolicità e balsamicità, corpo e pienezza, e troverà il suo equilibrio in bottiglia.

Il 2002 sarà ricordato come uno dei peggiori degli ultimi 50 anni, ed il 2003 darà vini molto eterogenei, difficili da vinificare a causa di una estate straordinariamente calda e secca.

Ma dopo due annate “estreme” arriva il 2004, annata generosa ed equilibrata, che ci darà vini vicini alla tradizione, eleganti, austeri e molto tipici per l’espressione delle varie sottozone.

Il 2005, appena presentato, è stato valutato con 4 stelle, al contrario di tutte le annate a 5 stelle che abbiamo fin qui citato, ma confidiamo in una buona evoluzione in bottiglia, da confermare nei prossimi due-tre anni.

LE ANNATE A 5 STELLE



1928 – 1934 – 1958 – 1968 – 1977 – 1985 – 1987 – 1988 – 1990 – 1993 – 1997 – 1999 – 2001 – 2004.




LE ANNATE A 4 STELLE

1948 – 1955 – 1960 – 1964 – 1966 – 1967- 1994 – 1996 – 2000.

Vino Taurasi Area di produzione
Territori collinari in provincia di Avellino nei comuni: Taurasi, Bonito, Casterlfranci, Castelvetere sul Calore, Fontanarosa, Lapio, Luogosano, Mirabella Eclano, Montefalcione, Montermarano, Montemiletto, Paternopoli, Pietradefusi, Sant’Angelo all’Esca, San Mango sul Calore, Torre le Nocelle e Venticano



 

Il Nostro Olio (DOP)

IRPINIA COLLINE DELL’UFITA (Olio extravergine di Oliva) DOP

Descrizione del prodotto

L'olio extravergine di oliva “Irpinia Colline dell'Ufita DOP” presenta senza dubbio caratteristiche organolettiche di grande pregio. E' di colore verde, se giovane, fino a giallo paglierino, di diversa intensità. All'olfatto si rivela fruttato, con piacevoli note erbacee e netti sentori di pomodoro acerbo, percepibili distintamente anche al gusto; all'assaggio è armonico, con intense, ma sempre piacevoli ed equilibrate sensazioni di amaro e piccante, in armonia con l'elevato contenuto in polifenoli. L’acidità, inoltre, non supera il valore di 0,50%, con punteggio al panel test non inferiore a 7.
L'olio “Irpinia Colline dell'Ufita DOP” deve derivare per non meno del 60% dalla varietà Ravece (valore elevato all’85% per i nuovi impianti); per la restante parte possono concorrere altre varietà locali, quali l'Ogliarola, la Marinese, l'Olivella, la Ruveia, la Vigna della Corte. Estremamente ridotto (non più del 10 %) l’apporto ammesso di altre varietà non autoctone, quali il Leccino o il Frantoio.
Le tecniche di coltivazione degli oliveti sono quelle tradizionali delle Colline dell’Ufita, che assicurano all’olio che ne deriva l’elevato e noto pregio qualitativo. La raccolta viene effettuata entro e non oltre il 31 dicembre di ogni anno e le olive vengono molite entro due giorni dalla raccolta. La resa al frantoio non può eccedere il 20%. L'olio “Irpinia Colline dell'Ufita DOP” è il risultato della perfetta armonia tra ambiente, varietà, capacità imprenditoriale e tradizione, che in Irpinia risultano essere antichissime. L’area di produzione della DOP coincide con quella di coltivazione delle varietà più pregiata dell’olivicoltura irpina e che è assurta a simbolo dell’olivicoltura di qualità: la Ravece. La Ravece è una cultivar di origine sconosciuta, ma almeno dal ‘500 diffusa quasi esclusivamente nel territorio ufita-arianese, componente privilegiata della dieta mediterranea che in quest’area si caratterizza sul trinomio vino pane e olio. La notevole presenza di note aromatiche e il suo gusto fruttato intenso fa prediligere l’uso di quest’olio su piatti di una certa consistenza, come minestre a base di legumi, gustose pastasciutte della tradizione irpina, zuppe, bruschette e grigliate di carne. Essendo un prodotto di gran pregio per la sua categoria, attraverso il riconoscimento della DOP potrà essere conosciuto ed apprezzato non solo a livello locale ma sui mercati nazionali ed internazionali.

Cenni storici

Dopo i vini, ormai noti in tutto il mondo, l'Irpinia si pone all'attenzione dei consumatori più esigenti con i suoi oli di pregio, riscuotendo sui mercati crescenti consensi.
Gli oli irpini sono il risultato della perfetta armonia tra ambiente, varietà, capacità imprenditoriale e tradizione, che qui è antichissima. Infatti, la presenza dell'olivo nell’avellinese risale ad epoca romana, come è ampiamente documentato da numerosi reperti. Furono proprio i Romani, appunto, a costruire i primi strumenti per la spremitura delle olive e a perfezionare sempre di più le tecniche di conservazione dell'olio.
La massima diffusione dell’olivicoltura in Irpinia si ebbe però in era angioina, per poi svilupparsi in quella aragonese (XIV secolo) e consolidarsi definitivamente nell’800.
La testimonianza della presenza massiccia dell’olivo nell’Ufita è fornita dalle ampie distese di alberi secolari nelle colline arianesi, cuore dell’olivicoltura irpina. Nella sola “Città di Ariano”, nel 1794, erano presenti “dodici molini da macinar olive, chiamati volgarmente trappeti, a quali sono addetti i cavalli per farli girare…”, che diventano, agli inizi dell’800, 29 come afferma Nicola Flammia nella “Storia della Città di Ariano”: “…ci sono 29 trappeti o frantoi di olive, quali dentro e quali fuori dell’abitato”.
Numerose sono anche le testimonianze storiche relative alla grande influenza che l’olivo ebbe sull’economia delle popolazioni rurali della zona che si specializzarono non solo nella produzione dell’olio, ma anche in quella delle anfore, atte a contenere il già ricercato prodotto.
All'alba del terzo millennio, l'olio di oliva dell’Ufita costituisce ancora un prodotto carico di misticismo e soprattutto un componente fondamentale della famosa dieta mediterranea, della quale molti esperti attestano gli aspetti benefici per la salute.

Area di produzione

L'area di produzione dell'olio “Irpinia Colline dell'Ufita DOP” di fatto coincide con quella di coltivazione della varietà che è assurta a simbolo dello sviluppo dell'olivicoltura di qualità dell’Irpinia e non solo: la Ravece.
In particolare, l'area comprende 38 comuni dell'Ufita e della Media Valle del Calore, in provincia di Avellino, che sono: Ariano Irpino, Bonito, Carife, Casalbore, Castel Baronia, Castelfranci, Flumeri, Fontanarosa, Frigento, Gesualdo, Greci, Grottaminarda, Lapio, Luogosano, Melito Irpino, Mirabella Eclano, Montaguto, Montecalvo Irpino, Montefusco, Montemiletto, Paternopoli, Pietradefusi, San Nicola Baronia, San Sossio Baronia, Sant'Angelo all'Esca, Savignano Irpino, Scampitella, Sturno,
Taurasi, Torella dei Lombardi, Torre le Nocelle, Trevico, Vallata, Vallesaccarda, Venticano, Villamaina, Villanova del Battista, Zungoli.

Dati economici

La superficie olivetata dell’area di produzione dell’olio “Irpinia Colline dell'Ufita DOP” si aggira intorno ai 3.500 ettari, con oltre 9000 aziende produttrici. La produzione dell’olio è pari a circa 25.000 q.li all’anno che corrispondono a due terzi circa della produzione provinciale. Le aziende imbottigliatrici potenzialmente interessate alla produzione dell’olio DOP sono una trentina. Il fatturato medio annuo è stimato in 2,7 milioni di euro, valutando che la DOP interesserà, in fase di avvio, il 15 % della produzione.
Il riconoscimento della DOP e il crescente interesse commerciale verso tale prodotto ha rivitalizzato l’intero comparto, in cui si registrano anche significativi successi di aziende produttrici non solo sul mercato locale e regionale ma anche presso la moderna distribuzione. Peraltro, da tempo l’offerta di olio Ravece prodotto nell’area è percepita dai consumatori come di alto livello di qualità e quindi elevata è la richiesta del prodotto stesso che con la DOP dovrebbe ulteriormente rafforzarsi. Si segnala anche una discreta presenza di produzione biologica che, sommata alla certificazione con il marchio DOP, costituisce un’ulteriore opportunità commerciale per le aziende produttrici.

Registrazione

La Denominazione di Origine Protetta (D.O.P.) “Irpinia – Colline dell’Ufita” è stata riconosciuta, ai sensi del Reg. CE n. 510/06, con Regolamento n. 203 del 10 marzo 2010 (pubblicato sulla GUCE n. L 61 dell’11.03.2010). La Scheda riepilogativa è stata pubblicata sulla GUCE C160 del 14 luglio 2009.
Il riconoscimento nazionale era avvenuto con DM 10 ottobre 2005, pubblicato sulla GURI n. 246 del 21 ottobre 2005, unitamente all’allegato Disciplinare di produzione.

Organismo di controllo

L'organismo di certificazione autorizzato è l'Is.Me.Cert. (Istituto Mediterraneo per la Certificazione dei prodotti e dei processi nel settore agroalimentare), Corso Meridionale, 6 80143 Napoli tel. 081.5636647 - fax: 081.5534019 (sito web: www.ismecert.it).

Consorzio di tutela

L’istanza originaria per la richiesta della DOP fu presentata dall’omonimo Comitato promotore, con sede in Avellino, c/o la CCIAA di Avellino, piazza Duomo 5 Avellino.
 

 

lunedì 16 maggio 2011

Santuario Maria SS. Della Neve (Morroni) Bonito (AV)


                                                 Storia del santuario

Il modernissimo Santuario della MARIA SS.DELLA NEVE sorge sul luogo dove secondo la tradizione sul finire del VI secolo era apparsa ad alcuni contadini una dolce figura femminile con in braccio un bambino. All'apparizione i buoi si inginocchiano.La figura,sospesa nell'aria,era circonfusa di luce abbagliante ed era accompagnata da angeli ed Arcangeli che diffondevano musiche soavi.Era la Madonna.
Da Allora le apparizioni si susseguirono.
Infine,in quel posto dove anticamente sorgeva un tempio pagano fu eretto un tempio cristiano dedicato alla Madonna.Il tempio subì nel corso dei secoli vari crolli e devastazioni sia per le invasioni barbariche,sia per le lotte intestine tra Stati e Stati,sia per i terremoti devastanti.

La terra di Morroni dove attualmente sorge un bellissimo e stupendo Santuario,ha ospitato nel passato diversi Papi(Onorio II,OnorioIII,Urbano IV,Leone IX,ecc...) e diversi personaggi importanti.
(federico II,Carlo d'Angiò,Carlo VIII).


Ha accolto nel 1222 anche il Santo dei Santi San Francesco d'Assisi.
Si narra che Carlo VIII,dopo aver conquistato il castello di Apice,attirato dalla fama della Madonna,venerata nella chiesa di Morroni,volle recarsi sul posto sul posto per constatarne la bellezza e le virtù taumaturgiche.
Là giunto,fece il suo ingresso in chiesa con cipiglio altezzoso seguito dai suoi guerrieri armati.Si era sul finire della primavera dell'anno 1492.faceva molto caldo.
Improvvisamente però,mentre Carlo VIII sostava irriverente,in chiesa,il cielo si coprì di nuvoloni neri e cominciò a nevicare con grande intensità.In un battibaleno campi e strade furono coperti da montagne di neve e Carlo VIII non poté far ritorno al castello.
Restò prigioniero nella Chiesa con tutto il suo seguito per oltre quaranta giorni e solo quando si pentì dei suoi propositi cattivi la neve scomparve del tutto e riapparve la bella stagione.
Da allora alla Madonna di Morroni fu attribuito l'appellativo di Madonna della Neve"


"Attualmente,il Santuario eretto dalla volontà popolare costituisce un punto di riferimento della religiosità di tutto il Sannio e l'Irpinia.
I cittadini di Morroni e dei luoghi vicini,legati spiritualmente al santuario,costituiscono di questo luogo sacro."

"Il 9 febbraio il Cardinale Tonini,celebrando l'Eucaristia,ha stabilito un legame di speranza
e di fede con il Santuario.Ora tutta la terra di Morroni,dal Calore all'Ufita benedice la Madre del Signore." 


                                         
                    L' Icona di Maria ss. Della Neve 

La tela si presenta come un dittico: ma la lunga e stretta striscia di sinistra (con le due teste d'angelo e l'angelo intero) è stata giustapposta solo posteriormente da qualche pio ma non altrettanto scaltro artista, nell'intento forse di evidenziare la natura angelicata di Maria e la sua nobiltà regale.

La figura muliebre, maestosa e solenne, è leggermente protesa in avanti e, in questo movimento impercettibile, la spalliera della sedia si rivela, le ginocchia si divaricano ed il panneggio si dilata in un palpitante effetto tridimensionale.

Un lungo velo, muovendosi dal capo, parte scende dietro le spalle,e parte, adagiandosi sul petto,
si avvolge sulla destra della Madre che regge il Bambino.

Il velo non è il KALIPTRA con le tre stelle simbolo della verginità prima durante e dopo il parto,né l’OMOPHORION (o MAPHORION) cioè quel mantello che copre le spalle di una persona di riguardo,
ma il segno chiaro o della divina sapienza ispiratrice (Maria è SEDES SAPIENTIAE) oppure,
preferibilmente poiché ci troviamo in territorio occidentale, della Regalità universale.
Il diadema, aggiunto artificialmente in tempi posteriori, ha voluto dare ulteriore chiarezza questo titolo regale già proclamato dal velo.

La perpetua verginità di Maria risplende nell'azzurro sobrio del largo mantello che le avvolge i fianchi le braccia, mentre la divina maternità traluce nell'ondeggiare imperioso della larga e sontuosa tunica rosea che scendendo in giro completo, trova confortante riposo sul cuscino regale della nobile predella.
Ma la punta del piedino scalzo, che su di esso si posa, rammenta
all’orante il saldo e mai dimenticato attaccamento della Regina del
cielo alla comune umile origine:”la stirpe umana”.


Similmente, nel sensibilissimo modellato del viso,
tutto pervaso da una trasfigurante luce interiore,
la maestà immensa del cielo si coniuga
amorevolmente con la tristezza infinita della terra.

Lo sguardo pensieroso ma sereno della Regina
è colto nell'attimo breve ma significativo di tutta la sua missione:
"Rivolgi a noi quegli occhi tuoi misericordiosi".

All’orante, più che al suo Figlio, sono diretti suoi occhi dolci e penetranti
di madre clemente e pia.

Il bambino che, con gesto deciso, si aggrappa fortemente alla tunica materna,
sembra confermare ed approvare la missione di misericordia della Regina, che è anche la madre
di tanti poveri peccatori.

Questa icona, nitida e precisa diventa così la rappresentazione di una preghiera impressa sulla tela, e si offre come una finestra luminosa aperta sul mondo soprannaturale, al di là del tempo e dello spazio. Questo quadro, misurato e spazioso nella prospettiva, lieve e finito nelle forme, fresco e luminoso nei colori, danzante ma sicuro nel segno, costituisce davvero un ponte tra il visibile l'invisibile.

L'autore ignoto,come in quasi tutte le icone bizantine, dimostra di possedere sicura tecnica, ricchezza di linguaggio ed ottima ispirazione e gusto. Ai fedeli di Morroni, fortunati possessori di questo piccolo capolavoro ricordo e faccio mie le parole di San Giovanni Damasceno: "Se qualcuno ti chiede della tua fede, portalo in chiesa e mostragli le icone"



                        Per raggiungere il Santuario


Il Santuario di Maria SS. della Neve si trova in località Morroni di Bonito,
piccolo paese sulle colline dell'Irpinia a m 434 s.l.m. a cavallo tra la provincia di Benevento e quella di Avellino.

Come raggiungere il Santuario SS. Maria della Neve di Morroni di Bonito (AV)?

- uscire al casello di Grottaminarda dell'Autostrada Napoli-Bari A16, girare a sinistra, costeggiare il cimitero per 200 metri. Al primo incrocio vi troverete sulla S.S. Appia (SS90).

- Proseguire per Bonito-Avellino per 5 km. Dopo il terzo semaforo svoltare a destra e proseguire in direzione Bonito per 3 km. All'incrocio Bonito-Morroni svoltare a sinistra. Dopo circa 1 km metri troverete il Santuario SS. Maria della Neve


Per ulteriori informazioni chiamare i seguenti numeri: 0338.40.91.349 / 0347.46.09.575 o consultate il sito www.comune.bonito.av.it

Per Offerte:N°C/C:14919831-Intestato alla Parrocchia SANTA MARIA DELLA NEVE di Morroni di Bonito (AV)

-Distanze dai capoluoghi di provincia e dalle città principali-

  35 km da Avellino, 75 km da Caserta, 70 km da Salerno, 25 km da Benevento,

 180 km da Bari, 300 km da Roma, 100 km da Napoli.







  

 



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lunedì 9 maggio 2011

Zio Vincenzo Camuso


"Zio Vincenzo Camuso"
di ENZO COVIELLO

In un angolo della zona più bella di Bonito, la Via Belvedere (il “Muraglione” per i Bonitesi), si conserva la mummia di “Zio Vincenzo Camuso”. Per i cittadini è un Santo, per il clero locale “un’anima del Purgatorio”. La Cappella che oggi lo ospita è la stessa di sempre: un tempo parte integrante della Chiesa dell’Oratorio, intitolata alla S. M. Annunziata, danneggiata dal sisma dell’agosto del 1962 e poi abbattuta. Grazie al contributo dei bonitesi emigrati negli Stati Uniti d’America e per volere della Confraternita della Buona Morte nella persona del priore p.t. Crescenzo Petrillo, oggi è possibile visitare la nicchia dove è seduto Zio Vincenzo Camuso.
Per avere qualche notizia certa bisogna tornare un po’ indietro nel tempo e precisamente al 5 settembre del 1806 quando fu esteso all’Italia l’editto di Saint Cloud (del 12 giugno 1804). Da quel momento la sepoltura dei morti doveva necessariamente avvenire nei pubblici Cimiteri, posti al di fuori delle città, e le chiese dovevano essere “svuotate” dai corpi dei defunti che in precedenza lì erano stati adagiati. L’editto fu attuato a Bonito solo verso la metà del 1800: il 4 novembre 1849, infatti, iniziano le tumulazioni nel cimitero. In precedenza i defunti erano seppelliti, fino al 28 novembre 1838 nelle varie Chiese di Bonito (Chiesa Arcipretale, Chiesa di San Giuseppe, Chiesa di Sant’Antonio, Chiesa di S. M. Annunziata o “Oratorio”; dal 28 novembre 1838 al 6 novembre 1839 nel “Cimitero” della Chiesa di S. M. della Valle, e dal 6 novembre 1839 fino al 29 settembre 1849 nella Chiesa di Sant’Antonio). La prima sepoltura nel pubblico Cimitero fu quella d’Anna Antonia Minichiello, moglie di Pietro Sorrentino, di circa 60 anni; Arciprete era Luigi Inglese (tutto questo è dai registri di sepoltura ecclesiastica).
E’, quindi, intorno al 1850 che inizia la storia di “Zio Vincenzo Camuso”, allorquando, nella Chiesa dell’Oratorio furono rinvenuti un cumulo d’ossa e teschi e due corpi integri in “carne ed ossa”. Uno a contatto con l’aria si polverizzò, l’altro, quasi intatto, fu posto su una sedia impagliata. Si gridò subito al miracolo!
Il nostro Vincenzo Camuso risale probabilmente alla fine del 1600, inizio 1700: ciò si evince dal modo di sepoltura. Secondo l’usanza molto estesa in questo periodo, i cadaveri erano posti su un sedile di pietra di forma circolare, bucato, sotto al quale era posta della sabbia. La mummificazione avveniva così in maniera fisiologica, per un processo d’essiccazione dovuto allo scolo dei liquidi sull’arena.
Tale ipotesi è supportata dal fatto che il berretto che Zio Vincenzo Camuso ha sulla testa è una parte dell’abito della Congrega della Buona Morte – veste bianca e copricapo nero – che si soleva apporre ai defunti in quegli anni e per tutto il mese di novembre, il “mese dei morti”.
Zio Vincenzo Camuso si presenta seduto, con gli arti inferiori estesi, quelli superiori leggermente piegati e le mani incrociate all’altezza del ventre. La testa è volta verso destra e lo sguardo diretto verso l’alto. Quest’ultima caratteristica appare inspiegabile: la testa, difatti, per la morte del corpo, non poteva avere la sensibilità per mantenersi in quella posizione, ma piuttosto sarebbe dovuta essere abbassata, quasi “a guardare” il ventre. Zio Vincenzo Camuso non era un monaco né un ostetrico. Non poteva essere un monaco perché ciò sarebbe sicuramente risultato dai registri parrocchiali. Non era un ostetrico poiché dalle ricerche condotte, al tempo in cui risalirebbe Zio Vincenzo Camuso, il compito di assistere le donne durante il parto, era affidato, per motivi di pudore e successivamente anche per legge, solo a donne.
Certamente apparteneva alla Confraternita della Buona Morte. A prova di ciò non è solo il berretto, ma soprattutto il fatto si essere “sepolto” nella Chiesa dell’Oratorio in cui, per lo spazio limitato, erano posti solo i cadaveri degli appartenuti alla Confraternita.
Per la Chiesa è “uno scheletro di un defunto che merita rispetto. Essa, infatti, ha insegnato e insegna sempre il rispetto per i resti mortali. Non c’è dichiarazione di Santità, né ci può essere, per il momento: questo perché poco o nulla si sa sulla vita terrestre di quest’uomo chiamato dal popolo “Vincenzo Camuso”. Per la Santificazione è necessario conoscere la sua testimonianza cristiana vissuta. Bisogna essere Santi sulla terra per essere Glorificati in Paradiso. Le grazie che tante persone attestano, saranno sicuramente vere, ma non possono essere comprovate scientificamente. E’ fede popolare che va rispettata perché porta alla meditazione delle grandi opere di Dio e della nostra vocazione alla Santità”.
Per quanto riguarda il nome, vi sono varie teorie. Secondo alcuni sarebbe stato tramandato nei secoli. Secondo altri gli sarebbe stato dato da colui che scoprì il corpo. Altri ancora ritengono che all’atto dell’esumazione, sul corpo, vi fosse una scritta col nome “Vincenzo Camuso”. L’ipotesi maggiormente attendibile è la prima, anche sulla base delle testimonianze raccolte tra gli anziani che riferiscono che già i loro nonni si recavano a visitare la “mummia” e che questi dicevano lo stesso dei propri genitori. Tali dichiarazioni dimostrano l’antichità del culto!
I fedeli sostengono che “Zio Vincenzo Camuso” si manifesti loro, sia nel sogno sia nella realtà, a volte come corpo mummificato, altre, con sembianze umane.
Zio Vincenzo Camuso, si sarebbe inoltre rivelato, ad un medium, in una seduta spiritica, tenutasi in Venezuela mezzo secolo fa, fornendo il proprio nome e l’indicazione del luogo dove poteva essere visitato. Tale fatto fu reso noto, a Bonito, da uno dei partecipanti alla seduta, l’ingegnere A. N.
Nel novembre del 1975, Zio Vincenzo Camuso, avrebbe dettato ad una signora di Catanzaro, che non n’aveva mai sentito parlare, un messaggio, per risposta ad una sua invocazione d’aiuto rivolta al Signore. In tale documento dice di “essere perito nella sciagura più brutta che possa esistere”, secoli prima, che “ Dio è stanco delle cattiverie umane” e che “bisogna pregare molto il Signore nostro”.
I Bonitesi e tutti coloro che si professano suoi fedeli gli riconoscono grandi poteri taumaturgici. La prova è data dalle decine d’ex voto poste accanto all’Urna.
Questo quadro fa ben comprendere il perché di tanta animosità e di tanto fervore da parte dei Bonitesi, quando si è trattato di difenderne il culto dalle insidie dei miscredenti. Degna di nota è una missiva inviata il 23 Novembre 1957 dall’Arciprete di Bonito, il Sacerdote Giuseppe De Michele, al Vescovo della Diocesi di Ariano, avente per oggetto –citiamo testualmente- il Sacello del Purgatorio e Vincenzo Camuso. Da questa si ricavano alcune notizie mai conosciute prima, che possono essere un buon punto di partenza per future ricerche. Il sacerdote fa presente che fino ad una trentina d’anni prima, nella Chiesa dell’Oratorio vi erano lungo le pareti frontali, su tavole di legno, ben ordinati, una considerevole quantità di teschi umani; al centro del Sacello, un altarino con statuette delle anime purganti, ed ai due lati dell’altare uno scheletro di un uomo ed uno di una donna, accomodati su due sedie. Quello della donna andando in sfacelo fu sepolto; l’altro, per tradizione (questo il pensiero del sacerdote a riguardo) detto Vincenzo Camuso, rimanendo in buono stato di conservazione, non fu tolto, ma seduto su un pezzo di cassa funebre tenuta in piedi. In occasione del prolungamento del Sacello, dopo il terremoto del Vulture, anche i teschi furono sepolti. Il prete continua sostenendo che, ai tempi del brigantaggio, Vincenzo Camuso veniva “vestito” con la divisa dei confratelli della Congrega, ma dopo un po’ di tempo, lasciato nudo d’ogni indumento, per pudore, gli fu amputato il membro. Sulla stessa lettera (dattiloscritta) è riportata (a penna) una nota in cui si afferma che il dottor Fulvio Miletti, alla data del 27 Novembre 1957, riteneva probabile l’origine di Vincenzo Camuso sulla contrada Palatina, perché là avevano le terre i Camuso. Gli aneddoti sull’evoluzione del culto, si sprecano. Qualcuno riferisce di quando, nel periodo fascista, la moglie dell’allora podestà, convinse il marito a far coprire la mummia con un telo, perché, a suo avviso, costituiva motivo di vergogna per il paese. Tale decisione non fu accettata dai cittadini che si organizzarono in una vera e propria rivolta popolare. Qualcun altro comunica notizia di un muratore che, impegnato nei lavori di restauro della Cappella, prese ad imprecare contro Zio Vincenzo Camuso, manifestando espressamente la sua volontà, ai colleghi di lavoro, di voler buttare quello “scheletro” nel dirupo sottostante. L’uomo non terminò di parlare, che si sentì mancare la terra sotto i piedi, cadendo nel dirupo e provocandosi serie fratture.
Tante sono le persone che sostengono di essere state miracolate da quella “anima buona posta al fianco di Dio”; alcuni, come la signora di Catanzaro di cui abbiamo prima riferito, dicono di essere stati visitati in sogno senza neppure sapere della sua esistenza. Si sa di una bambina, M. T., recante una gravissima malformazione all’anca e guarita completamente per intercessione della “mummia”. Si parla anche di un bambino, affetto da un tumore al cervello, che non poteva essere operato perché rischiava la paralisi totale degli arti. La madre chiese la grazia a Zio Vincenzo Camuso e qualche mese dopo, i medici costatarono una piccola cicatrice al cervello la quale fece pensare che l’operazione fosse stata eseguita da “qualcun altro”. Il bambino, in ogni modo, era completamente guarito. Una vecchietta racconta di una persona affetta da un tumore allo stomaco prossima ad un’operazione; quando i medici si recarono dal paziente per comunicargli la data dell’intervento, questi riferì, tra lo sgomento generale, di essere già stata operato nella notte da un tale che gli aveva detto di essere Vincenzo Camuso di Bonito. Il signore in questione, guarito, si recò in paese per ringraziare quello che credeva un medico vivo e vegeto e rimase sbalordito, nell’apprendere prima, e nel vedere dopo, chi fosse “Vincenzo Camuso”. Ancora, una donna affetta da cancro al seno (A. P.) data per spacciata dai medici, racconta di essere stata tenuta per mano, durante un’operazione e durante la sua dolorosa degenza in ospedale da “Zio Vincenzo Camuso” e da “S. Antonio di Padova”, che la confortavano sul buon esito della sua malattia. Attualmente, la donna è viva e le sue condizioni di salute sono molto migliorate. Tantissime, sono le donne che dichiarano di essere state assistite da Zio Vincenzo Camuso durante il parto (forse è per questo che si è pensato fosse un ostetrico) e molte le persone che dicono di essere state aiutate nei momenti di bisogno da colui che definiscono un “Santo”. Una delle sue ultime grazie sarebbe la guarigione di una ragazza napoletana, G. C., recante una malformazione al ginocchio. In un biglietto posto accanto alla “mummia”, G. C. scrive: “Da molto tempo ho sofferto per un dolore al ginocchio che m’impediva di stare in piedi. Il medico ortopedico mi aveva sottoposto ad un intervento chirurgico. Dopo alcuni giorni mi fecero una nuova visita di controllo al ginocchio con un ottimo risultato; la malformazione era sparita. Il ginocchio fu guarito per grazia ricevuta dal Santo miracoloso Vincenzo Camuso che prego sempre”. In un altro biglietto, firmato L. S. A., si legge: “Con immenso amore da chi ti adora più d’ogni altra cosa. Ti ringrazio con tutto il cuore per ciò che continui a fare, non potrei ringraziarti abbastanza. Mi sono messa nelle tue mani sante e tu mi hai aiutato, ti amerò immensamente ieri come oggi, oggi come domani, sempre nell’eternità. Grazie per le grazie fatte; ti porterò sempre nel mio cuore e so che mi starai sempre vicino. La tua devota L. S. A.”.
Le richieste di miracoli sono tantissime e le più disparate e, tutte affisse in una bacheca posta accanto alla “mummia”. “Un devoto di Giugliano, A.” scrive che Il valore della vita è legato a filo stretto a quello delle sofferenze. Non si viene fin qui per una passeggiata, è l’amore che deve muoverci. Zio Vincenzo aiutami ad amare sempre di più; è l’unica via per sopportare la mia sofferenza. Quando sarò meritevole (se lo sarò) graziami a stare meglio. Ti voglio bene. A. Giugliano (NA)”.







domenica 8 maggio 2011

Lo strummolo



Con il termine strummolo, nel napoletano, si indica un semplicissimo giocattolino, che ormai è sotterrato sotto la coltre del tempo andato: trattasi di una trottolina di legno a forma di cono con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice, in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strummolo, una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strummolo mediante uno strappo secco, per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su se stessa facendo perno sulla punta metallica: piú abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strummolo, tanto maggiore sarà la velocità della roteazione e la sua durata . Se invece lo strummolo è di scadente fabbricazione , il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà di breve o nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strummolo è ballarino o tiriteppe, volendo (con l’onomatopea tiriteppe riportata talora, ma meno correttamente come tiriteppola) indicare appunto la non idoneità del giocattolino. Allorchè poi alla scentratezza dello strummolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere di imprimere forza al moto rotatorio dello strummolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppe e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso ad esempio di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono artiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere - quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.
Per tornare allo strummolo rammentiamo un altro modo di dire:
cu chestu lignammo se fanno ‘e strummole Id est: con questo legno si fanno le trottoline; questo modo di dire à una doppia significazione:
A – È con questo legno (non con altro!) che si fanno le trottoline...ovvero : ciò che volevate io facessi,andava fatta nel modo con cui la ò eseguita...
B – Con il legno che mi state conferendo si fanno trottoline, non chiedetemi altri manufatti; cioè: se non avrete ciò che vi aspettavate da me , sarà perché mi avrete fornito materiali inadatti allo scopo, , non per mia inettitudine o incapacità.
Prima di accennare all’etimologia, ricordiamo ancora che uno strummolo costruito male per cui gira per poco tempo e crolla in terra risultante perditore era detto per dileggio: strummolo scacato
Nel giuoco dello strummolo il maggior rischio che correva il perdente tra due contendenti era quello di vedersi scugnare il proprio strummolo da quello del vincitore che lanciava il proprio strummolo violentemente contro quello dell’avversario tentando di sbreccarlo con la punta acuminata del proprio strummolo, se non addirittura di spaccare la trottolina del perditore.
Pacifica la etimologia dello strummolo gioco addirittura greco se non antecedente e greca è l’etimologia della parola che viene dritta dritta dal greco strómbos trasmigrato nel latino strumbus con consueta assimilazione progressiva strummus a cui è aggiunto il suff. diminutivo olus→olo che dà il napoletano: strummolo con il suo esatto significato di trottola.